Luigi Spina, da Sing Sing a Pompei

Continua e fino al 30 giugno al Museo Archeologico Nazionale di Napoli (il MANN), la mostra “Sing Sing – Il corpo di Pompei” di Luigi Spina. Sotto i tetti rossi di questo superbo palazzo corre un lungo corridoio, stretto e poco illuminato, su cui s’aprono quindici stanze protette da solide cancellate. È uno dei depositi che fa venire subito in mente un carcere, tanto che fu battezzato anni fa proprio così: Sing Sing, come il penitenziario dello Stato di New York. Accatastate e in bell’ordine anfore che hanno conservato olio e forse quel “Falerno Opimiano di cent’anni” con cui Trimalcione deliziava gli ospiti, e poi piatti, stoviglie e tegami ed altri oggetti d’uso comune. O anche preziosi e fini bronzetti: dee alate, puttini giocosi oltre a chiavi, serrature e lucerne; in bronzo i Lari e i Penati protettori, gli Ercole propiziatori, e piccole erme che sorreggevano specchi; ci sono ampolline per i profumi e gli unguenti, pettini, orecchini, bracciali. Trovi qui, perché il magma, le ha sottratte allo scorrere del tempo due pagnotte: pane non consumato perché il vulcano esplose furibondo fermando la vita.

 Questi reperti conservano ancora la patina di quella tragedia, l’impronta del Vesuvio e l’alito ardente del suo fuoco. «Qui la tragedia, il senso effimero dell’esistenza – dice il fotografo – si coglie al primo sguardo.» Quello che resta, conservato in questa mediterranea Sing Sing, è il tessuto di quelle città. Luigi Spina ha diviso il suo progetto in due momenti. Il primo è un preludio, è descrittivo: introduce il racconto, anzi la sua operazione di recupero. Il fotografo offre una carrellata di questi scaffali. Ogni piatto dice che qualcuno ha mangiato, ogni bicchiere che altri hanno bevuto. Dà i brividi pensare che dietro il più piccolo oggetto c’è una persona che ha vissuto. Questa emozione ha suggestionato il fotografo quando ha voluto recuperare, insieme agli oggetti, le vite di cui sono testimonianza. 

Con il mezzo della fotografia ha compiuto quella stessa operazione che gli archeologici chiamano Anastilosi: ha rimesso cioè insieme le parti di un corpo che è esistito, e questo termine, astruso ai più, l’ha fatto scrivere sul pavimento dell’area espositiva. Scegliendo determinati oggetti, estrapolati dall’insieme, Luigi Spina vuole dire anche che questi reperti sono stai nelle mani di qualcuno. Per il tempo di una foto, li ha tirati fuori dalle celle del loro carcere e ha ridato ad ognuno dignità, per quello che rappresentavano, con grazia ed eleganza. Li mette in scena, togliendoli dalla massa, con una luce che cade dall’alto e li illumina disegnando un nuovo spazio geometrico. Li ha poi riportati idealmente nelle case dove si trovavano. Non a caso, la mostra è stata allestita nella sala del museo napoletano più visitata ed amata, quella di Villa dei Papiri. Ed è un allestimento ossequioso e discreto. Le fotografie sono tenute su pannelli microforati, sicché non coprono le opere antiche lì in mostra permanente, ma dialogano con loro con continui rimandi e ammiccamenti, come se quelle e queste si fossero ritrovate.

La mostra è accompagnata da un raffinato ed elegante catalogo edito da “5 Continents Editions”. 

Giovanni Ruggiero (da “FOTOIT” marzo 2022, mensile della FIAF).