Breve nota in margine alla mostra di Sergio Spataro “In-Bilico”, tenutasi presso la galleria Lineadarte Officina Creativa di Giovanna Donnarumma e Gennaro Ippolito di Enzo Pagano

Palermitano di nascita, classe 1951, ma formatosi a Napoli tra il Liceo artistico e l’Accademia, Sergio Spataro mostra di aver assimilato, e proficuamente messo a frutto, la lezione delle avanguardie che nell’ultimo quarto del secolo scorso hanno animato la scena artistica internazionale.

Riesaminando, tuttavia, con sguardo retrospettivo alcune sue opere, viene fatto di considerare in primis il vivace e variegato contesto napoletano di formazione. La lezione di Gianni Pisani, unitamente a quella di Elio Waschimps, trova riscontro in alcuni piccoli, ma deliziosi lavori, i quali mostrano un impianto narrativo per molti versi vicino al loro mondo poetico. Penso in particolar modo al Pisani de “La scala che mi porta da te”, a cui sono riconducibili uno smalto su cartone dallo stesso titolo, del 2018, e i più recenti “Studi d’equilibrio”, in uno dei quali compaiono due scale a pioli incise nel colore col manico del pennello e “con mano mancina”, caratterizzate cioè da un tratto “infantile” come nell’ultimo Waschimps. Le scale sono collegate tra loro da una fune e “appoggiate” contro un profondissimo cielo carico di foschi presagi. In una di queste piccole tavole, un acrobata procede lentamente, “in bilico”, sul filo teso. Nell’altra, sullo stesso filo si scorgono delle croci, le stesse che in un’ulteriore intensa composizione, raggruppate a tre a tre, fanno pensare ad un moltiplicarsi di lontananti Golgota. Vicina alla tematica del funambolo, ma diversamente orientata per soluzioni formali e plastiche, una ceramica raku mostra una figurina distesa a braccia aperte su una struttura ad arco gialla (trave, bordo di nave o astronave che sia), rilevata su uno sfondo di un blu violaceo. Anche qui la figurina pare quasi sul punto di precipitare nell’abisso e fa pensare, seppure tradotta in un linguaggio neo-espressionista di più attuale concezione, agli omini sospesi nel vuoto, che un altro protagonista della scena napoletana, Mario Persico, ha dipinto a partire dagli anni Sessanta del Novecento, e che sviluppano proprio i temi della “Caduta” e del “Viaggio”. Grazie a queste “sopravvivenze” la pittura di Spataro è pervenuta ad una personale e matura cifra espressiva, trovando una sua collocazione nell’ambito di una figurazione non scevra da sconfinamenti nei territori dell’astrazione informale ed in linea con le ricerche condotte dalla sua generazione. In “Celebranti” il supporto di legno è ricoperto di ritagli di stoffa allo scopo di ottenere una superficie accidentata ed esaltare la qualità tattile della pittura, in una maniera analoga a certi lavori di Alberto Burri (un esempio tra tutti: “Rosso” del 1953), sebbene l’elemento figurale e l’acceso cromatismo orientino l’opera in direzione della Transavanguardia, e addirittura, per l’iconografia, verso l’apparato liturgico del Teatro dei Misteri dell’austriaco Hermann Nitsch, (ciò si nota in maniera ancora più evidente in “Casula”). Le tangenze con la Transavanguardia italiana sono significative. in “Pittore Postumo” l’immagine centrale di un pesce dall’aspetto poco rassicurante “galleggia” entro una coppa di vetro, proiettando su di essa un’ombra lunga da squalo: una figurazione apparentemente ingenua, resa in forme di un primitivismo istintivo e in colori vivaci, nonchè carica di riferimenti simbolici. Proprio la Transavanguardia aveva indicato nel nomadismo linguistico una nuova possibilità di espressione, così come teorizzato da Achille Bonito Oliva. Spataro dal canto suo rivendica la piena libertà dell’artista di operare scelte tra loro molto diverse, mantenendosi tuttavia sempre ironicamente “in bilico” (“C’è del metodo in questa follia”) sul filo della creazione. (Enzo Pagano)

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